Gli amari stanno vivendo un periodo d’oro, che riporta alla memoria gli anni del Secondo dopoguerra, quando si radicarono profondamente nel tessuto sociale, diventando uno dei prodotti insostituibili in casa ed al bar.
La fame patita durante il conflitto mondiale doveva essere dimenticata in fretta e le abbuffate domenicali in famiglia divennero un fatto di costume. In questo contesto gli amari, consumati nel dopo pasto, divennero l’accompagnamento delle chiacchiere e delle partite a carte pomeridiane, in attesa dei risultati del totocalcio.
Oggi, con un mercato più evoluto, cresciuto nel mantra del bere responsabile e consapevole, la riscoperta degli amari assume toni diversi, con un recupero rivolto in buona parte alla miscelazione dei cocktail. Un ruolo questo che gli amari avevano ricoperto già negli anni ‘30 quando l’Americano era fatto, oltre che con il bitter, con il Fernet o un Felsina Ramazzotti.
Nessuna altra categoria rappresenta a pieno titolo la nostra scuola liquoristica, così legata alla produzione dei primi amari commerciali, di cui troviamo le testimonianze sui testi di fine Ottocento con la nascita di molti prodotti che ritroviamo ancora oggi, griffati con i nomi dei produttori che ebbero più successo.
L’amaro alpino, siciliano, bolognese, il fernet di Milano divennero dei veri e propri marchi nel secolo successivo, con l’arrivo di Carosello e delle prime pubblicità. Averna, Braulio, Branca, Lucano, Montenegro e Ramazzotti divennero così marchi a cui una larga fascia di consumatori si affezionò per lungo tempo.
L’amaro è di fatto il rappresentante liquoristico dell’Italia, più trasversale rispetto al vermouth, che ha nella capitale sabauda il suo centro di eccellenza.
I patriottici amaro Mameli, Garibaldi e 1918 (divenuto poi 18), i celebrativi Alfieri e Marconi, il nostalgico Savoia, l’amaro del carabiniere contrapposto a quello del brigante, sono solo alcuni esempi di come questo prodotto sia lo specchio della nostra società.
Se l’origine della categoria amari è tutto sommato recente, i loro antenati sono ben più antichi.
Infatti la maggioranza delle ricette trova ispirazione dagli antichi rimedi medici, gli elisir che, divenuti obsoleti per via dell’affermazione della farmacia chimica, si reinventarono, grazie all’arrivo dello zucchero, come piccole medicine degli uomini sani.
Durante il Settecento, secolo nel quale si colloca la nascita della liquoristica voluttuaria, gli amari trovavano posto solamente nei libri di farmacia e spesso la parola era usata non come sostantivo ma come aggettivo di una preparazione, ad esempio il rosolio di noccioli di albicocca dalla classica scia di gusto amaricante ed aroma di amaretto. La liquoristica, in pratica, si basava su preparazioni essenzialmente dolci ed il bilanciamento gustativo era affidato alle scorze di agrume o a piccole quantità del loro succo, oppure a componenti balsamiche come il ginepro o la menta.
Il gusto amaro era ancora abbinato all’idea di rimedio e cura: si dovrà aspettare l’arrivo dello zucchero di barbabietola a basso costo agli inizi dell’Ottocento, grazie agli studi compiuti sulla barbabietola detta Bianca di Slesia, e poi del passaggio alla chimica della farmacologia, perché gli amari avessero la loro trasformazione.
In pratica i rimedi a base di erbe, divenuti obsoleti, migrarono dalle farmacie agli scaffali dei bar.
Testimonianza ne fu il successo del Boonekamp, un bitter di ispirazione farmaceutica olandese che divenne uno dei must degli anni ’70, con il magenbitter (il bitter stomatico) a cui sembra ispirato l’amaro del guardiacaccia (Jägermaister) un altro best seller degli anni Settanta.
Oggi risulta quanto mai difficile classificare i prodotti sul mercato, ma lo scrivente, autore del libro “Amari & Bitter” con il quale ha cercato di ricostruire la storia degli amari e di comprenderne il fenomeno, ne ha individuato due scuole: quella Alpino Montana e quella Mediterranea. Assaggiando e comparando le ricette dei più famosi amari italiani è possibile infatti definire queste due grandi scuole o stili.
I prodotti della prima sono solitamente più amari, balsamici ed alcolici, in quanto la cucina del Nord Italia e dell’Appennino in genere risulta più strutturata e ricca di grassi animali, soprattutto in inverno per via del freddo. Pertanto è naturale avere una gradazione superiore, in grado di pulire meglio la bocca dalla grassezza, e sostanze amari più presenti. Possiamo individuare nella genziana, presente dal Piemonte al Veneto e fino all’Abruzzo, come uno dei principali elementi di questa scuola, seguito dalle note balsamiche della menta, che però si ritrova, come mentuccia (o nepitella), anche nella tradizione romana e sicula. Segue l’assenzio, sempre protagonista a queste latitudini, nei suoi vari biotipi, dal Mutellina al Gentile. Chiude il Nocino che viene proposto dall’Appennino Ligure ed Emiliano, vero luogo di elezione del liquore, fino alla Campania con l’eccellenza del Nocillo napoletano.
Gli amari della Scuola Mediterranea invece nascono influenzati da una cucina ricca di grassi vegetali, verdura, legumi e pesce. La carne di maiale e i salumi in genere, con l’eccezione della tradizione calabrese, non sono molto consumati. I dolci sono a base di ricotta e miele, ed il clima è decisamente più caldo, anche in inverno.
Non è pertanto necessario avere gradazioni importanti, e il profilo aromatico è dominato dagli agrumi che spesso risultano prevedere l’uso dell’albedo (la parte bianca della buccia), come solo elemento amaricante. Il profilo viene completato dalle piante della macchia mediterranea, dall’eucalipto e anche dalle foglie di ulivo, con una percentuale di zucchero solitamente ben più elevata rispetto al cugino nordico.
A questo punto non ci resta che prendere in mano un bicchiere ed assaggiare la new age dell’amaro italiano che ha visto la nascita di decine di amari ed il recupero di molte ricette dimenticate, grazie all’entusiasmo delle nuove generazioni.
Dopo il Vermouth, una altro grande caposaldo della scuola italiana è tornato.