Ogni inizio anno si celebra il funerale del gin.
Da più parti si afferma infatti che ormai, dopo quasi un decennio di crescita abbia ormai terminato la sua corsa. Ma puntualmente i guru del bartending sbagliano, come fecero per il vermouth, pensando che la sua rinascita sia stata una semplice bolla.
In Italia tutto ha inizio qualche anno fa, nel 2013 per la precisione, con la celebrazione a Milano del primo Gin Day. In quell’occasione in gin italiani si potevano contare sulle dita di un mano, mentre oggi è probabile che nessuno sia in grado di darne il numero preciso. Secondo alcuni siti specializzati probabilmente si sta superando la soglia dei mille. Ma come è potuta avvenire in così poco tempo questa rivoluzione, o forse meglio saturazione del mercato? Si perché ormai non c’è barman o bar conosciuto che non provi a crearsi una propria ricetta.
Ma attenzione, chi si lamenta per una eccessiva offerta, non conosce la storia della liquoristica. Pensate per un attimo a tutte le imitazioni di fernet, figlie del successo di Branca, oppure del liquore Strega o ancora delle centinaia di marchi di Vermouth che solcavano il mercato ad inizio Novecento: il mercato non si può fermare. Quando un prodotto ha successo è inevitabile che tutti vogliano giocare la propria carta.
Per analizzare il fenomeno gin, dobbiamo prima analizzare il disciplinare ed i presupposti. Il gin viaggia a circa 55 milioni di casse da 9 litri, mentre sua maestà il whisky ne fattura quasi dieci volte tanto. Sono comunque numeri molto interessanti, per un prodotto che non necessita di un lungo e costoso invecchiamento per essere venduto. Se produco un whisky devo necessariamente aspettare tre anni prima di poterlo vendere e dopo questo periodo, se escludo la possibilità di un blend con prodotti più vecchi, avrò ancora un prodotto pressoché invendibile per via di una certa ruvidezza che si mitigherà solo con un prolungamento dell’invecchiamento dai due ai quattro anni. In definitiva per produrre un single malt devo immobilizzare un capitale per almeno sette anni. Motivo per cui praticamente quasi tutte le distillerie scozzesi producevano anche gin e vodka in maniera più o meno ufficiale. Infatti con questi due prodotti ritorna immediatamente l’investimento e non si immobilizza capitale. Con il successo del gin anche i francesi del cognac ne hanno approfittato per riaccendere gli alambicchi ad aprile.
Ma c’era ancora un ostacolo tecnico da superare, quello della distillazione. Il gin nella sua forma più tradizionale, il London Dry Gin[1], deve essere necessariamente passato in alambicco. Si mettono erbe e spezie a macerare in alcol e si distillano. E dopo tale operazione non si può aggiungere nient’altro che acqua o alcol neutro per la sua diluizione. In pratica nulla che alteri il suo gusto originale. Ne risulta che nella caldaia possono entrare solamente piante aromatiche e spezie (non usate la parola botaniche perché sono le ragazze che studiano botanica ), in grado sopportare elegantemente il calore della distillazione.
In questo la fantasia dei singoli produttori veniva piuttosto limitata, da qui la tradizione inglese di un utilizzo di un numero limitato botanicals (il termine inglese per indicare gli elementi aromatici che si è italianizzato). Sicuramente l’innovazione tecnica, con la nascita degli alambicchi sottovuoto e dei rotavapor, è venuta in soccorso di coloro i quali volevano sperimentare nuove fragranze, ma permaneva lo scoglio del prezzo necessario all’acquisto dello strumento e delle licenze per poter distillare. Questo è stato il motivo della stagnazione, per lunghi anni, dei marchi proposti a scaffale.
L’attuale successo del gin è in parte sicuramente dovuto alla possibilità di adottare altri metodi produttivi, considerati inferiori dai puristi, ma che ovviano al problema dei costi, ovvero il distilled e poi il compound. Con il primo è prevista una deroga sulla purezza del London, con la possibilità di aggiungere elementi aromatici in una macerazione successiva alla distillazione, mentre con il secondo, come indica la parola stessa, c’è la possibilità di comporlo utilizzando alcolati prodotti da terzi.
Questi due tipi di gin sono spesso definiti con disprezzo “bathtub gin” (gin della vasca da bagno), da chi produce gin per distillazione (i puristi), riferendosi con questo termine al prodotto clandestino fatto con mezzi di fortuna, dei tempi del proibizionismo americano.
semi di coriandolo cannella e anice radice di angelica cardamomo
Con il distilled gin la fantasia può scatenarsi poiché possiamo pensare di aggiungere alla nostra massa di London dry aromatizzazioni successive, siano esse frutta (lamponi o fragole), fiori (gardenia, camomilla), ortaggi (cetrioli), alghe e licheni fino ad arrivare ai semi della marula (Scelerocarya birrea), il frutto africano preferito dagli elefanti, raccolti dalle deiezioni di questi animali, per emulare in qualche modo il caffè Kopi Luwak. Il compound gin invece aiuta anche a ridurre i costi di produzione, in quanto invece che acquistare un costoso London dry da “conciare” con aromi innovativi, si può utilizzare una massa alcolica neutra di costo contenuto che verrà addizionata dei più economici alcolati concentrati, ovvero estratti alcolici di materiali aromatici, siano essi singoli (ginepro) oppure materiali aggregati per conferire sia texture che aromaticità (cortecce e legni ricchi di resine o scorze di agrumi).
Anche in questo caso, comunque, nulla di nuovo sotto il cielo. A fine Ottocento questo era il metodo con cui Luigi Sala, un grande autore di libri di liquoristica, consigliava a noi italiani, che gli alambicchi li usavamo per grappa e brandy, di produrre un ottimo gin.
In conseguenza di queste innovazioni, il mercato del gin “esplode”, con la nascita di alcune aziende dedicate che offrono al barman o al semplice appassionato la possibilità di realizzare la propria ricetta e lo accompagnano nel suo concepimento. Queste aziende si appoggiano poi ai terzisti, ovvero distillerie in possesso di codice accisa, che lo imbottiglieranno. Altre volte sono direttamente quest’ultimi che si dedicano alla produzione su commissione, con un’unica variabile: il costo, che a secondo del numero di bottiglie prodotte varia notevolmente. Non necessitando di filtrazione, in quanto sia massa di alcol che alcolati sono già lavorati e filtrati a monte, si può pensare di produrre anche solo cento bottiglie, ad esempio come originale bomboniera per un matrimonio o una festa di laurea con gli amici. In questo caso, ovviamente, il prezzo sarà abbastanza elevato, pari a quello di una bottiglia d champagne di qualità, ma poco importa se si vogliono impressionare gli ospiti, mentre il costo si riduce ad una manciata di euro se si superano le diecimila bottiglie.
Nessun altro distillato offre questa possibilità, ovvero il poter far esprimere la propria creatività (o il proprio ego) progettando una cosa affine al proprio gusto. Il vermouth, che si basa sullo stesso principio, ovvero aromatizzare una massa pre-esistente, presenta in sé uno scoglio più difficile da superare, ovvero l’ingrediente vino che, a differenza dell’alcol, non è neutro ma decisamente vivo e caratterizzato. Nel produrre il proprio gin personalizzato, una volta aromatizzato l’alcol con una certa miscela di alcolati aromatici, si può star sicuri di aver dato una precisa identità al proprio prodotto, con scostamenti impercettibili dettati dalla stagionalità delle erbe e delle spezie, o leggermente più marcati se decido di lavorare con frutta ed ortaggi, mentre nel vermouth sarà sempre una faccenda in divenire, così come la sua principale materia prima, il vino.
Da qui il successo del self-made gin, pochi euro per i famosi quindici minuti di popolarità, perché nulla è più buono di qualcosa che si è fatto con le “proprie mani”.
[1] Questa dizione non fa riferimento al luogo di produzione attuale, ma al processo di produzione, anche se il nome è quello del prodotto storico messo a punto nella capitale britannica. Normato dal Regolamento CE 110/2008, deve essere ottenuto esclusivamente da etanolo di origine agricola, i cui aromi presenti provengono esclusivamente dalla ridistillazione di un macerato alcolico di erbe e spezie(in generale materiali vegetali naturali), in alambicchi tradizionali. Non si possono utilizzare aromi e coloranti, nemmeno sotto forma di estratti o alcolati.