Quasi sempre, quando si parla di tipologie di cacao, si fa riferimento a tre tipologie che vanno sotto il nome di criollo, forastero e trinitario. Questo schema nel corso degli anni è diventato una sorta di paradigma, sia per i produttori di cioccolato che per gli appassionati e lo si ritrova nella maggior parte delle pubblicazioni e dei siti internet, come anche sulle confezioni delle tavolette di cioccolato single origin. Come tutti i paradigmi, soprattutto quelli troppo semplicistici, arriva però un tempo in cui le certezze granitiche sulle quali si basa cominciano a franare. E nel nostro caso specifico questo accadde, più o meno, alla svolta del millennio. Ma cerchiamo di raccontare la storia con ordine.
Innanzitutto, il cacao impiegato in tutto il mondo per produrre cioccolato appartiene a un’unica specie, il Theobroma cacao. Fatte salve le rarissime eccezioni di quei pochissimi che hanno provato a realizzare cioccolato con un’altra specie, il Theobroma grandiflorum, ma questa è un’altra storia. Le specie, di qualsiasi pianta ad uso agricolo ed alimentare, si suddividono in varietà, le quali sono raggruppamenti genetici omogenei che danno origine ad individui con determinate caratteristiche, abbastanza costanti nel tempo. Le varietà possono essere incrociate fra di loro per dare origine a ibridi. Per farla semplice, varietà sono, ad esempio, i diversi tipi di vitigni nell’uva, i diversi tipi di mele, pere, meloni, ecc. Lo stesso accade per le specie animali allevate, che si differenziano in razze.
Per il cacao, che è una specie coltivata da millenni, risulterebbe poco credibile che le varietà esistenti siano solo tre. E infatti le tre categorie criollo, forastero e trinitario sono una semplificazione, accettata da tutti, per indicare tre grandi gruppi genetici che raccolgono individui con caratteristiche comuni, ma che al loro interno possono presentare anche delle differenze, tali da distinguere più varietà. Solo in Venezuela, ad esempio, il criollo da origine a differenti varietà chiamate porcelana, guasare, canoabo, chuao, ed i vari ocumare.
Commercialmente questa semplificazione fa però comodo, sia ai coltivatori che ai produttori di cioccolato, finanche all’utente finale. Per i coltivatori è però ancor più importante la distinzione tra cacao “fine flavor”, ovvero quello di alta qualità, e “bulk cocoa”, cioè cacao ordinario che si vende all’ingrosso: il primo corrispondeva grosso modo a criollo e trinitario e l’altro al forastero.
Ad un certo punto alle due tipologie principali, criollo e forastero, venne assegnato il rango di sottospecie, chiamandole Theobroma cacao cacao il primo, e Theobroma cacao sphaerocarpum, il secondo. Sphaerocarpum significa “dal frutto sferico”, e identifica la varietà di forastero più diffusa nel mondo (nota anche come Amelonado, perché il frutto ricorda appunto un melone), mentre la ripetizione del termine cacao per il criollo indica il fatto che lo si ritiene “l’originale”, cioè il primo a essere domesticato dall’uomo.
Ed il trinitario, che cos’è? Si tratta di un incrocio tra criollo e forastero che ha una data ed un luogo di origine ben precisi: il nome deriva infatti dall’isola di Trinidad, che nel ‘700 era uno dei principali produttori di cacao, dove nel 1727 accadde un evento non meglio precisato che decimò le piantagioni su tutta l’isola. Le fonti scritte riportano il termine inglese “blast”, che è piuttosto generico e potrebbe indicare sia una fitopatologia sia un altro evento (es. uragano). Sta di fatto che i coltivatori locali decisero di rimpiazzare le piante di cacao perdute con altre provenienti dal vicino Sudamerica, le quali erano, come è stato appurato da recenti ricerche, esemplari di amelonado. Negli anni a venire i pochi alberi di criollo superstiti si ibridarono con i nuovi arrivati dando origine, nelle condizioni di isolamento geografico di una realtà insulare, ad una varietà di cacao dalle caratteristiche ben definite, il trinitario appunto.
I frutti (cabosse) del criollo sono in genere di forma allungata, con scanalature evidenti, a volte appuntiti e con superficie verrucosa, e hanno colori molto variabili, dal porpora/viola al rosso aranciato, al verde-giallognolo; i semi all’interno sono molto chiari, quasi bianchi, causa l’assenza di antocianine (le stesse sostanze che danno il colore violaceo ai vini rossi). Le cabosse di forastero invece, almeno nella varietà più diffusa amelonado, sono arrotondate e lisce, poco o per nulla scanalate, di colore generalmente giallo a maturità e contengono semi di colore violaceo, a causa della ricchezza di antocianine. Il criollo è sempre stato considerato il cacao migliore: scarsa amarezza e astringenza, aromi delicati tendenti alla panna o burro e alla frutta secca, ma con uno spettro olfattivo che può variare in base a tipologia e zona di provenienza. Il forastero ha invece astringenza e amarezza pronunciate, un aroma più basic, ovvero “cioccolatoso”, privo di particolari sfumature aromatiche. E fin qui sono notizie piuttosto note, che è possibile trovare ovunque.
È ora il caso di precisare che c’è sempre stato un “quarto incomodo”, il cacao proveniente dall’Ecuador noto come nacional (o arriba), il quale vanta caratteristiche ben definite che lo distinguono da tutti gli altri, ma che è sempre stato classificato solo come un tipo particolare di forastero, di elevata qualità organolettica, al punto da rappresentare un’ingente parte del cacao fine flavor (o fino de aroma, in spagnolo) prodotto a livello mondiale.
Sappiamo come le idee e le schematizzazioni di successo, rapidamente si sedimentino nella cultura diffusa e siano molto difficili da mettere in discussione, anche quando ci sono anomalie evidenti e conti che non tornano. Siccome tre è il numero perfetto, con gli antagonisti criollo e forastero a dividersi la scena nei ruoli del “buono” e del “cattivo”, più il loro “figliuolo” trinitario nato giusto per dimostrare che non esistono solo il bianco e il nero, il nacional ecuadoregno finisce per essere una scomoda eccezione a una regola aurea, e quindi deve essere ricondotto in una delle categorie già note.
Ma dove si originano, storicamente, questi termini usati per designare le tipologie di cacao? Sul trinitario già sappiamo, ma gli altri due?
Siamo certi che il cacao coltivato e amato da Olmechi, Maya e Aztechi fosse il criollo, il quale dopo la “conquista” spagnola venne coltivato, oltre che in Messico, nel resto dell’America centrale, poi nei Caraibi e infine in Venezuela. Ed è proprio in questo Paese che nacque la consuetudine di distinguere il cacao in criollo e forastero. Ad inizio ‘800 il Venezuela era il primo produttore mondiale di cacao ed il cacao ivi coltivato era quello “antico”, lo stesso che secoli prima coltivavano i messicani, il quale però cominciava a subire la concorrenza del cacao brasiliano, originario del basso bacino del Rio delle Amazzoni e favorito sui mercati dalla sua elevata produttività e buona resistenza alle malattie. I portoghesi iniziarono a produrre cacao in modo sempre più intensivo in Brasile e a esportarlo anche nelle loro colonie africane. I venezuelani per distinguere le due tipologie iniziarono a chiamare il loro cacao “criollo”, che in spagnolo significa nativo del luogo (per noi sarebbe “nostrano”) e quello brasiliano “forastero”, una cosa che proviene da un altro luogo, come è facilmente comprensibile anche in italiano (forestiero).
Da quell’epoca i due nomi, insieme a trinitario, divennero di uso comune ed acquisirono valenza commerciale. Ma essi non necessariamente corrispondono a due reali entità dal punto di vista genetico, o meglio la questione è ben più complessa e cominciò a chiarirsi una ventina di anni fa, grazie alle ricerche sulla genetica del cacao rese possibili da nuove tecniche di indagine del DNA, messe a punto a partire dal 2000. Già una prima ricerca evidenziò che il cacao della Guyana francese aveva caratteristiche genetiche a sé stanti. Seguirono altre indagini di più largo respiro, la cui pietra miliare è rappresentata da “Geographic and Genetic Population Differentiation of the Amazonian Chocolate Tree (Theobroma cacao L)”[1], pubblicata nell’ottobre 2008 da un team che riuniva alcuni dei più prestigiosi ricercatori, che ha smontato completamente la teoria della suddivisione del cacao in criollo, trinitario e forastero.
Il criollo effettivamente “esiste” e si è confermato essere la varietà che coltivarono le antiche popolazioni dell’area messicana; esso ha una base genetica piuttosto ristretta, essendo stato sviluppato a partire da un numero ristretto di individui, probabilmente importati dal Sudamerica, ed avendo nel corso degli anni sempre subito una forte selezione da parte dei coltivatori. Oggi le piante di criollo non ibridate, quindi geneticamente simili ai propri antenati, sono piuttosto rare, ben al di sotto dell’1% della produzione mondiale di cacao.
Il nome forastero invece include quello che in realtà è un arcipelago di varietà, spesso con poco in comune tra loro; la tipologia più comune, ovvero l’amelonado, è un cacao di origine basso amazzonica con una sua fisionomia genetica ben precisa, e le piante che da esso derivano vengono, ancora oggi, spesso chiamate con il vecchio nome “forastero”, il quale però sarebbe meglio abbandonare del tutto.
Le varietà originarie, o sarebbe più corretto dire le popolazioni originarie, si sono evolute lungo il bacino del Rio delle Amazzoni e sono ben più numerose: il vecchio paradigma deve pertanto essere superato, in favore di uno nuovo, che ci piace chiamare il “paradigma della biodiversità”.
Biodiversità perché il cacao nasce in uno degli ambienti più ricchi di diversità genetica dell’intero pianeta ed è esso stesso una specie ricca al suo internodi diversità, molto più di quanto si pensasse, come le recenti analisi hanno potuto dimostrare. Anche l’uomo ha storicamente contribuito, tramite selezioni e incroci, a plasmare una ricchezza di cultivar, agendo come “fattore di disturbo positivo”, secondo una terminologia tipica degli studiosi di ecologia.
Nella già citata pubblicazione del 2008, viene proposta una nuova classificazione del cacao in 10 popolazioni originarie, da cui si sono successivamente sviluppate le tante varietà coltivate nel corso dei secoli. A queste popolazioni sono stati assegnati i nomi tradizionali con cui erano note (es. criollo oppure nacional), o più spesso quelli dell’area geografica di riferimento, che spesso è il nome di un fiume affluente del Rio delle Amazzoni: le vallate dei fiumi, isolate tra loro dai crinali montani, sono infatti state il maggior fattore di segregazione genetica, il quale ha dato origine a popolazioni differenti.
Le dieci popolazioni sono state così chiamate: marañon, curaray, criollo, iquitos, nanay, contamana, amelonado, purús, nacional, guiana. È forse superfluo precisare che il trinitario non deve essere contemplato in questa classificazione, non risultando una popolazione originaria ma provenendo da un’ibridazione avvenuta in tempi storici. A questa ricerca ne sono seguite altre, una dei quali ha permesso di individuare un’undicesima popolazione, proveniente dalla valle del fiume Beni in Bolivia, chiamata nacional boliviano o beniano. Queste undici popolazioni, più il trinitario, hanno dato origine a molti ibridazioni, spontanee oppure ottenute dai genetisti e dai coltivatori tramite incroci, andando a creare un panorama piuttosto vasto di varietà commerciali.
Vediamo ora alcune informazioni aggiuntive, su alcune delle popolazioni originarie (a criollo, trinitario e nacional saranno dedicati specifici articoli).
Amelonado. Il nome amelonado è da sempre sinonimo di forastero del basso bacino amazzonico il quale, come già detto, deriva dalla forma tondeggiante e liscia della cabossa e dal suo colore giallo, che lo fa somigliare a un melone. Oggi l’amelonado e i suoi ibridi rappresentano il tipo di cacao più coltivato al mondo, grazie alla sua diffusione in Africa, il maggior produttore mondiale di cacao con oltre il 70% del totale. Le analisi genetiche mostrano una sua origine e domesticazione nell’Est del Brasile, nel bacino del fiume Pará. Le fonti storiche testimoniano la sua introduzione nello Stato di Bahia nel 1746, a opera del francese Frederick Warneau; da qui probabilmente si diffuse poi verso Est, attraversando l’Atlantico con i portoghesi nei primi decenni dell’Ottocento, in direzione delle loro colonie africane (prima nelle isole di São Tomé e Principe, poi nei Paesi del golfo di Guinea). La sua base genetica ristretta, in confronto a quella delle varietà alto amazzoniche, fa supporre che le coltivazioni si siano diffuse nel mondo a partire da un limitato numero di esemplari, provenienti tutti dalla stessa regione di Bahia.
Cacao alto amazzonico. Sotto questa voce si raggruppano popolazioni di cacao che all’analisi del DNA sono risultate anche piuttosto differenti, ma che condividono la stessa area e che hanno un tasso di diversità genetica altissimo. Provengono dalla zona che ha dato origine alla specie Theobroma cacao, ovvero il versante amazzonico delle Ande settentrionali, al confine tra Perù, Ecuador e Brasile. Si tratta delle popolazioni note come marañon, curaray, iquitos, nanay, contamana[2] e purús, che ci siamo sentiti di accomunare in un unico calderone, sia per semplificare un po’, sia perché nelle aree di coltivazione, che sono il nordest amazzonico dell’Ecuador e, soprattutto, il Perù, le piante coltivate sono geneticamente degli ibridi naturali di queste popolazioni originarie, che quindi commercialmente ha poco senso distinguere. In Perù, infatti, il cacao viene chiamato con nomi delle regioni di coltivazione e non con quelli legati alla sua origine genetica (vedi “Il cacao e il cioccolato in Perù”).
Guiana. Varietà minore dal punto di vista commerciale, proveniente dalla Guyana francese e conosciuta fin dal XVII secolo. Geneticamente si è dimostrata affine all’amelonado, con cui è anche vicina geograficamente, ma con una sua identità ben precisa. Il profilo organolettico è anch’esso simile all’amelonado, con un aroma basic molto intenso.
Nacional boliviano o Beniano. Esiste un altro cacao nacional, quello boliviano, come orgogliosamente lo chiamano nel suo Paese. È noto anche come beniano, dal nome della regione di provenienza, nel Nordest della Bolivia. La coltivazione del cacao fu introdotta in Bolivia dai missionari francescani e gesuiti nel XVIII secolo, utilizzando una varietà locale, poi coltivata per i successivi 200 anni dalle popolazioni indigene, le quali le assegnarono il nome di “criollo”, nel senso appunto di “locale”. Questa varietà – che ha cabosse piccole, simili a quelle dell’amelonado – oggi è stata rinominata cacao nacional boliviano. Sotto questo nome in realtà sono raggruppati due tipi diversi di cacao: uno che cresce selvatico, con piante non potate e pertanto di altezza insolita, lungo il corso del fiume Beni (basso Beni) e che viene tradizionalmente raccolto arrampicandosi sui tronchi; l’altro che viene invece coltivato più a nord, nell’alto Beni, la regione che produce l’80% del cacao del Paese. Analisi del DNA effettuate di recente hanno dimostrato che i due tipi, selvatico e coltivato, non appaiono molto diversi tra loro (probabilmente il secondo deriva dal primo) e sono una cosa a sé stante rispetto a tutte le altre varietà di cacao.
[1] J.C. Motamayor, P. Lachneaud, J.W. da Silva e Mota, R. Loor, D.N. Kuhn, J.S. Brown, R.J. Schnell (2008), Geographic and genetic population differentiation of the Amazonian chocolate tree (Theobroma cacao L.), PLoS ONE 3
[2] Contamana è il nome locale di una varietà di cacao alto amazzonico peruviano, più comunemente conosciuto con il nome di scavina-6 (o sca-6) che, essendosi evoluto assieme al fungo che causa i cosiddetti “scopazzi delle streghe”, ha sviluppato una naturale resistenza al parassita più temuto nelle Americhe. Questo cacao è stato usato in svariati programmi di incrocio per ottenere ibridi resistenti al fungo parassita, quindi riveste una notevole importanza commerciale: un suo ibrido con un trinitario ha dato origine a una delle varietà più coltivate in Brasile, nello stato di Bahia. Anche dal punto di vista organolettico è abbastanza interessante e non così diverso dal nacional ecuadoregno.