La fermentazione malolattica è considerata un fenomeno piuttosto “capriccioso”, della quale fino a non molti anni fa erano poco noti sia i responsabili che il funzionamento. La classificazione dei microrganismi e degli enzimi coinvolti è della metà degli anni ’90. Oggi le conoscenze si sono evolute e ci sono parecchie fonti dalle quali attingere informazioni. Vediamo allora di approfondire le conoscenze su questa fase fondamentale della vinificazione. Con il termine “fermentazione malolattica” si intende la conversione dell’acido malico, naturalmente presente nell’uva, in acido lattico, mediata da diverse specie di batteri lattici. Questi microrganismi si sono adattati alla forte acidità e alla presenza di etanolo ed anidride solforosa, due potenti antisettici, piuttosto abbondanti nel vino. La conversione dell’acido malico in acido lattico non è una vera fermentazione ma una decarbossilazione, mediata dall’enzima malolattico, del malato in lattato e anidride carbonica. Proprio la debole effervescenza che la fermentazione malolattica genera ha creato l’equivoco per il quale parliamo di “fermentazione” malolattica.
Perché i batteri lattici fanno la fermentazione malolattica? Per molto tempo le idee in merito non sono state affatto chiare. Oggi sappiamo che questo metabolismo è un modo ingegnoso di produrre energia in assenza di zuccheri. L’acido malico, al pH del vino, si trova in forma parzialmente dissociata, il suo ingresso nella cellula batterica avviene attraverso un trasportatore di membrana, ma senza dispendio di energia da parte dei batteri, dato che il gradiente di concentrazione è favorevole, ovvero il vino è ricco di acido malico mentre il citoplasma cellulare ne è privo. Una volta all’interno della cellula l’acido malico è decarbossilato ad acido lattico, il gruppo carbossilico se ne va sotto forma di CO2 (l’effervescenza della fermentazione malolattica) e per completare la molecola dell’acido lattico occorre consumare uno ione H+ presente nel citoplasma. Una volta ottenuto acido lattico, questi esce dalla cellula liberamente, perché di nuovo il gradiente è favorevole, in senso inverso al precedetene. Uscendo dalla cellula l’acido lattico crea una carenza di ioni H+ nel citoplasma che è colmata acquisendo un H+ dal vino, mediante una pompa protonica posta sulla membrana cellulare che genera energia. Un po’ come l’acqua che, caricata in alta montagna, scendendo a valle produce energia passando sulle pale di un mulino.
Dal punto di vista sensoriale l’acido malico, piuttosto aspro e da aggressivo, è convertito in un acido più morbido come l’acido lattico. Non è tanto la variazione di pH, spesso inferiore al mezzo punto, a determinare il risultato della demalicazione del vino quanto la rilevanza sensoriale dei composti consumati e prodotti nonché le vie metaboliche secondarie dei batteri lattici, a carico di altri substrati come l’acido citrico dal quale si ottiene il diacetile, responsabile delle note “burrose” ben percepibili nei vini bianchi nei quali è stata fatta la fermentazione malolattica.
Per iniziare a comprendere meglio le dinamiche che influenzano la fermentazione malolattica, occorre partire dalla considerazione che l’uva, il mosto e il vino sono ambienti in cui si evolve una complessa flora microbica, costituita sia da forme eucariotiche che procariotiche. I batteri lattici, in particolare la specie Oenococcus oeni, non sono facilmente osservabili in vigneto per via delle concentrazioni molto basse, nell’ordine di qualche centinaio di cellule per grammo d’uva. E’ invece convinzione comune che le specie di batteri lattici più adattate all’ambiente enologico, come Oenococcus oeni, permangano in cantina sulle attrezzature e negli ambienti per tutto l’anno, sviluppandosi poi tornare a cresce quando siano presenti nuovi mosti e vini freschi con la conseguente dote di nutrienti a disposizione dei microorganismi. È l’arrivo di nuovi mosti che stimola lo sviluppo dei batteri lattici sebbene all’inizio della fermentazione alcolica si assista a concentrazioni ancora molto basse e a notevole varietà di generi e specie come Pediococcus, Lactobacillus casei e Lactobacillus plantarum oltre che ovviamente Oenococcus oeni. L’accumulo di etanolo e di altri fattori tossici seleziona naturalmente la microflora lattica portando alla sola presenza di Oenococcus oeni.
Oenococcus oeni (source: https://www.enosens-grezillac.fr/ ) Lactobacillus plantarum (source: https://www.ultrastruktur.bio.lmu.de)
Questa specie è dotata di una buona resistenza all’etanolo, caratteristica che condivide con il genere Pediococcus, ma soprattutto di una spiccata resistenza ai bassi pH uno dei principali fattori limitanti presenti nei vini. Quando ciò non dovesse avvenire, ad esempio a causa di arresti di fermentazione, aumentano i rischi di alterazioni del vino proprio per la mancata eliminazione di specie di batteri lattici dannose. Oenococcus oeni è quindi la sola specie di batteri lattici che deve permanere nei vini al termine della fermentazione alcolica, sempre che si voglia portare a termine la fermentazione malolattica. A questo punto, se nel vino i numerosi fattori limitanti si sono mantenuti in un intervallo accettabile, si dovrebbe osservare la crescita della popolazione di Oenococcus oeni fino a concentrazioni superiori al milione di cellule per millilitro, con la conseguente degradazione delle fonti carboniose residuali, come l’acido malico, e quindi la fermentazione malolattica.
Alcune caratteristiche chimiche dei vini possono creare seri ostacoli allo sviluppo dei batteri lattici. Il vino è un prodotto già formato, dove molte fonti nutrizionali sono state consumate da altri generi microbici e che quindi si presenta piuttosto stabile, in altre parole difficile da colonizzare per i batteri. A ciò si aggiunga che alcune pratiche di cantina possono avere sviluppi negativi sulla microflora, sebbene non siano state direttamente attuate per controllare lo sviluppo dei batteri lattici. Generalmente, si considera la concentrazione di anidride solforosa, la presenza di alcol, i bassi pH e le basse temperature, i quattro fattori limitati per lo sviluppo microbico, presenti nel vino.
Una volta che lo sviluppo della microflora batterica è stato sufficiente per dare avvio alla fermentazione malolattica non è però possibile abbassare la guardia. Occorre monitorare con analisi periodiche il processo di degradazione dell’acido malico, in modo da non lasciare spazio a proliferazioni batteriche incontrollate al termine della fermentazione malolattica. È questo uno dei momenti più delicati del processo di vinificazione. Il vino si trova in questa fase privo di agenti protettivi come l’anidride solforosa, proprio per consentire ai batteri lattici un regolare sviluppo, e ricco di microrganismi: in primis i batteri lattici, ma possono essere presenti diverse specie di lieviti. Si può assistere a repentine alterazioni sia dovute ai batteri lattici che ad altre forme microbiche, come il Brettanomyces. A riguardo dei batteri lattici è noto che, oltre all’acido malico, questi microorganismi possono consumare l’acido citrico e residui di aminoacidi presenti nel mosto: da questi metabolismi derivano diverse molecole dannose come l’acido acetico, eccessive dosi di acido lattico, di diacetile, di acetoino, le ammine biogene e altri composti sgradevoli od addirittura tossici. Un pronto controllo dell’evoluzione della microflora lattica è quindi essenziale e oggi può essere condotto sia mediante monitoraggi della contrazione dell’acido malico, ottenibili anche con metodi enzimatici rapidi o mediante analisi microbiologiche.