Scrivere è fare il pane con le parole.
(Alessandro D’Avenia)
Pane, un alimento essenzialmente “vivo”, frutto di ingredienti semplici. Un agglomerato di natura e genuinità che necessita di lentezza e cura per essere prodotto. Spesso viene demonizzato dalle diete odierne ma a me piace pensarlo come un amico con il quale è bello trovarsi a tavola tutti i giorni.
Provate a chiudere gli occhi e pensare all’odore che si avverte passando a fianco di un forno o una panetteria… non c’è nulla di eguagliabile. Ma cosa si cela sotto quella crosta “da duro”, spesso ambrata e dalle più diverse forme? Cosa, o meglio chi sono i protagonisti della soffice trasformazione che lo caratterizza? Il passo più rivoluzionario nell’arte della panificazione avvenne nel momento in cui fu scoperto, quasi sicuramente per puro caso, il processo di fermentazione dell’impasto. Ma tralasciando i cenni storici, di cui parlerò in un’altra occasione, mi soffermerò qui a descrivere due tipologie di protagonisti, entrambe aventi lo scopo di far “levare” la massa: il lievito di birra ed il lievito madre.
È attraverso la trasformazione degli zuccheri contenuti nella farina che il lievito di birra e il lievitomadre concorrono all’innalzamento della così detta “maglia glutinica”, composta da due proteine insolubili – gliadina e glutenina – responsabili rispettivamente dell’elasticità e della tenacia e sostegno della massa. Il rapporto, indice di tenacità/indice di estensibilità (P/L), è misurato attraverso un apposito strumento dal nome alveografo di Chopin, e darà come risultante l’indice di forza della farina, W. Una farina “forte”, oltre ad essere ricca in glutine, sarà in grado di assorbire liquidi durante la fase d’impasto quindi trattenere anidride carbonica in lievitazione.
Esistono vari tipi di farine in commercio: integrali, dove il chicco viene macinato interamente in modo da preservare tutte le caratteristiche nutrizionali derivate dalla crusca e dal germe di grano, farine semintegrali, quindi via via farine più raffinate come la “0” e la “00”, quest’ultima ottenuta dalla macinazione della sola parte interna del chicco e costituita principalmente da amidi. A tal proposito è importante sottolineare che le farine con un alto grado di abburattamento, ad alto tasso proteico e in grado di assorbire molta acqua, esempio le integrali, non sempre si prestano bene a lunghe lievitazioni in quanto molte delle proteine presenti non partecipano alla formazione del glutine.
Ma tornando agli zuccheri, come questi vengono resi disponibili ai protagonisti “vivi” della trasformazione? Nel momento in cui farina e acqua si incontrano, specifici enzimi – amilasi – renderanno disponibili gli amidi della farina, ovvero gli zuccheri. Questi enzimi sono presenti naturalmente nei chicchi di cereali e hanno il compito di rompere le catene di glucosio che compongono l’amido. Ed ecco intervenire i nostri protagonisti… lavoratori instancabili: l’amido, trasformato in zuccheri fermentabili viene utilizzato dai microrganismi, che produrranno la CO2 necessaria per la lievitazione nell’impasto quindi i caratteristici aromi distinguibili nei prodotti finiti.
Nello specifico, il lievito di birra – Saccharomyces cerevisiae – che vi risulterà sicuramente comune perché utilizzato nel processo della fermentazione della birra e del vino, compie una reazione totalmente assimilabile a quella che avviene, infatti, in una fermentazione alcolica. Da una molecola di glucosio, vengono prodotti etanolo ed anidride carbonica. Un po’ di pazienza… ed ecco a voi la magia del “levare”: il pane, o i prodotti da forno in genere, si gonfiano perché la CO2 liberata, viene trattenuta dalla “maglia glutinica” e in cottura, essendo un gas, questa si espande e lascia visibili le classiche alveolature.
Il lievito che comunemente utilizziamo per i nostri impasti è costituito da culture selezionate di Saccharomyces cerevisiae, fatte crescere in appositi terreni di melasso e ammonio, quindi addizionate di acqua per la creazione del classico panetto o disidratate per la produzione del lievito liofilizzato. Il lievito madre invece, se aggiunto ad un impasto, lo “leva” molto più lentamente del Saccharomyces cerevisiae in quanto al suo interno si ritrovano a concorrere diversi tipi di microrganismi ossia, oltre ai lieviti, anche più specie di batteri lattici. Esistono diversi nomi per definire questo “consorzio microbico”: pasta madre, pasta acida, levito madre, lievito naturale e, in inglese, sourdough (si pronuncia “sauardo”) e si traduce letteralmente in impasto acido, in quanto la caratteristica saliente è la sua spiccata acidità, facilmente riconoscibile in fase di lavorazione e lievitazione.
I batteri presenti nel lievito madre, per la maggior parte lattici, posso essere diversi: Lactobacillus brevis, Lactobacillus alimentis, Lactobacillus elveticus, … nomi assai complessi ma aventi tutti una specifica origine e storia. Lactobacillus sanfranciscensis, per esempio, vede la sua scoperta in America, nella cittadina di San Francisco. Gli abitanti ne vanno così fieri, tanto da aver dedicato una mascotte rappresentata da “Sam Sourdough” alla squadra di football della città.
Sul lievito madre è di recentissima pubblicazione uno studio effettuato da un gruppo di ricercatori dell’università del North Carolina (The diversity and function of sourdough starter microbiomes – eLife, gennaio 2021 – eLife 2021;10: e61644). Su 500 campioni, provenienti da 40 distinti paesi, i ricercatori hanno effettuato il sequenziamento del DNA dei microorganismi contenuti nei distinti lieviti madre, quindi hanno valutato aspetti come: caratteristiche sensoriali dell’impasto, composti volatili prodotti e il tempo di lievitazione per gli starter maggiormente rappresentativi dei campioni analizzati. Fattori come l’età del lievito madre, quanto spesso questo viene alimentato o, ancora, dove viene conservato, si è scoperto determinano la tipologia di microrganismi presenti, più della regione geografica. Va però detto che questa analisi è stata effettuata a livello di specie di microrganismi e non delle razze fisiologiche con cui ogni specie si può presentare, che almeno a livello di altri prodotti, come i formaggi e i vini, hanno dimostrato di avere un legame col territorio.
Sarà bene fare chiarezza su di un aspetto: nel 77% dei campioni di lievito madre analizzati era presente il Saccharomyces cerevisiae, e in oltre il 50% dei casi risultava il lievito dominante: è importante precisarlo, perché in molti sono convinti che nel lievito madre il lievito di birra non sia presente. D’altro canto è vero che questo non è l’unico lievito presente e inoltre, tra le varietà di batteri individuati, il 24,9% era rappresentato da batteri acetici.
Il lievito madre è un lievito più “viziato”, perché costituito da svariate specie microbiche derivanti dall’ambiente in cui viene impastato, dalla farina ed acqua che si utilizzano per produrlo e dalle mani che se ne prendono cura… ed è proprio la sua biodiversità microbica che apporta le distinte caratteristiche aromatiche ai prodotti finiti. In un ambiente così complesso risulta quindi importante la coesistenza dei diversi microrganismi: i batteri, che conferiscono la tipica acidità e aroma caratteristico, effettuano la proteolisi e producono anidride carbonica (batteri eterofermentanti) ed i lieviti, che contribuiscono alla lievitazione grazie alla classica fermentazione, per l’appunto.
Per la preparazione del lievito madre sono disponibili ricette, dalla quale prendere spunto, delle più svariate. Tenendo in considerazione quanto descritto riguardo la farina (per partire a produrre lievito madre, meglio se ricca in proteine) e la sua composizione, quindi gli enzimi contenuti naturalmente in essa, è attraverso l’impasto con semplice acqua tiepida che si è in grado di creare il proprio “consorzio microbico”, da rinnovare con frequenza e da conservare a temperature adeguate.
Mantenere in vita la pasta madre necessita di cura e costanza, ma nonostante sia più impegnativo dal punto di vista pratico, consumare prodotti lievitati naturalmente, apporta benefici all’organismo. L’impasto lavorato con pasta madre non essendo caratterizzato da una fermentazione unicamente alcolica, ma, ricordiamo, produce anche acido lattico, vede favorita per intero la digestione delle proteine da parte dei batteri, rendendo così l’impasto più digeribile a chi lo consuma. Altro vantaggio del lievito madre, grazie al suo pH acido è la migliore degradazione dell’acido fitico, contenuto soprattutto nelle farine integrali: il Saccharomyces cerevisiae non è in grado di scinderlo nella sua totalità e questo funzionerebbe come chelante verso preziosi minerali (ferro, zinco, calcio), non rendendoli quindi disponibili all’organismo, mentre col pane di lievito madre lo diventano. L’alveolatura dei prodotti con lievito madre risulta più regolare grazie alla graduale produzione di CO2, oltre al fatto che i prodotti finiti, dopo cottura, sono caratterizzati da una maggiore conservabilità, dato che l’acidità che li caratterizza andrà a contrastare lo sviluppo di muffe e a rallentare il fenomeno del raffermamento.
Per concludere con una curiosità. Il lievito madre ha una preziosa tradizione, che va rispettata, se ricevuto in regalo: questo deve essere chiamato con il nome della persona che lo ha dato in dono, in modo da portare avanti il suo ricordo per lungo tempo… Una buona motivazione per prendersene maggiormente cura e dedicargli le attenzioni di cui necessita per mantenerlo in vita!
Brava Alice!