Ogni anno, quando il virus non è in giro, all’arrivo di novembre è tutto un parlare dell’olio nuovo. La raccolta delle olive è in pieno svolgimento e i frantoi lavorano di brutto. In tante parti d’Italia si va in campagna e ci si avvicina a chi sta facendo un lavoro di tradizione millenaria. Fioriscono le sagre con immancabile trionfo di bruschette. Nell’occasione s’assaggia, si vende e si compra l’olio nuovo, spesso con accompagnamento di commenti campanilistici o addirittura di competizioni familiari. È un evento culturale, forse il residuo di riti pagani sulla fertilità dei campi.
I commercianti urbani e la grande distribuzione si adeguano, offrendo prodotti visivamente adatti alla novità, belli verdi e tutt’altro che limpidi; che poi siano davvero nuovi è da controllare leggendo bene le etichette. Nell’occasione ci si rende conto di quante poche volte l’annata olearia, cioè quella vera, agricola, è riportata espressamente. La dizione “da consumarsi preferibilmente entro…” è sì obbligatoria, ma è tutt’altra cosa e non ci dice granché.
Poi, rapidamente, l’interesse scema. Passato Natale purtroppo l’extravergine sembra non meritare più attenzione, proprio adesso che siamo in vista della stagione più calda e potremmo immaginare insalate e carpacci.
A ben vedere, è proprio il caso di dirlo, dentro il fenomeno “olio nòvo” gioca un ruolo fondamentale l’attrazione visiva. A novembre ci si attende un “oro verde”, questo è il punto. E non esattamente brillante, anzi ha da essere un po’ velato o addirittura torbido dando l’impressione che sia davvero una spremuta di frutta appena fatta. Tutto bene? Certo, a patto di affrettarsi nell’uso di quell’olio. Entro poche settimane cominciano infatti i problemi, e la qualità scade.
D’accordo, il verde è un colore sempre attraente e nella nostra testa si collega a freschezza e gioventù (gli “anni verdi”). Ma qui è dato essenzialmente dalla clorofilla, che è destinata a scemare nel tempo con rapidità proporzionale alla ricezione di luce, dando luogo a foto-ossidazione e quindi a irrancidimento. Qualche settimana fa assaggiando i 2020 toscani per la Guida agli Extravergini di Slow Food di prossima uscita ci siamo imbattuti in un olio di un verde smeraldo quasi sospetto. Esposto di proposito alla scarsa luce solare di gennaio per un paio di giorni ha mostrato un clamoroso cambio di intensità e tonalità. Del resto in questa regione circola da sempre il pettegolezzo dell’aggiunta di foglie durante la frangitura per fare l’olio più verde…
Quanto alle sostanze che danno al prodotto un aspetto “naturalmente velato” va detto che in tempi più o meno brevi andranno a formare un deposito sul fondo del contenitore, qualsiasi esso sia. Sono particelle temporaneamente sospese nella massa liquida, poi precipitano. Naturale? Certo, ma quel sedimento è ricco di sostanze fermentescibili: garanzia di cattivo sapore in tempi brevi.
Conclusione: meglio consumare il nostro extravergine novello il prima possibile. Alternativa casalinga: proteggerlo strenuamente dalla luce e travasare solo la parte limpida in un altro contenitore pulito al primo sentore di deposito (operazione che all’occorrenza si potrà anche ripetere). Alternativa più semplice e più sicura: comprare un olio filtrato all’origine. Gli “inganni della vista” sono sempre in agguato quando si tratta di degustazione. Non a caso il bicchiere standard d’assaggio previsto dal protocollo di legge per la definizione di extravergine (“panel test”) deve essere scuro, perché l’assaggiatore non sia fuorviato.
Da consumatori nulla ci vieta di apprezzare il lato estetico, ma sapendo cosa implica. E poi si tratta sempre di un condimento, destinato a mescolarsi nel nostro piatto con altri ingredienti. Su un pesce o una fetta di pane il colore può dare un tocco quasi artistico, ma il più delle volte non finirà così.