Vi proponiamo un breve racconto della Toscana e di uno dei suoi prodotti simbolo, l’olio d’oliva extravergine, visti attraverso un microcosmo familiare, da una gastronoma statunitense che vive e lavora a Lucca (N.d.R.)
Negli Stati Uniti, la pubblicità di prodotti italiani, culinari per antonomasia, segue sempre lo stesso copione: musica di sottofondo… una panoramica di scorci collinari, paesaggi con vigneti, oliveti, cipressi… primo piano che scende su un casale del diciottesimo secolo… inquadratura di un uomo di un certa età che contempla botti di vino in cantina… poi sua moglie in cucina, intenta a preparare una pummarola casereccia… il quadro si allarga per includere l’intera famiglia, tre generazioni che siedono a tavola, sorridenti mentre arrotolano gli spaghetti sulle forchetta e fanno un brindisi alla Dolce Vita. Da qualche parte su questo tavolo c’è il prodotto che la pubblicità sta cercando di venderci. Che si tratti del vino, della pasta, del sugo o dell’olio d’oliva, il prodotto è ben piazzato come parte integrante di questo gioioso, semplice, tradizionale quadretto familiare. Questa è l’immagine americana dell’Italia.
È praticamente impossibile rimanere estranei alla cultura e alla tradizione italiana, ricca di mille anni di storia, quando si visita o si vive in questo paese. Anche nelle città metropolitane, più cosmopolite, non si può sfuggire all’italianità dell’Italia. Nonostante l’enorme diversità linguistica, culinaria e di costumi che cambia da un posto all’altro, sembra esserci una consapevolezza collettiva, nazionale, di certi cibi indispensabili, che tutti conoscono quasi come fossero loro parenti, di cui sanno da dove vengono e come sono prodotti. Prendiamo l’olio d’oliva e il vino, per esempio. Sono onnipresenti, perché tutti gli italiani sembrano avere un nonno, un cugino, un amico o un conoscente che produce questi alimenti di base. Questo tipo di “intimità” con il cibo, con un prodotto, è un fenomeno eccezionale per la gran parte degli americani, che raramente hanno idea delle origini di ciò che si trova sulla loro tavola, e che non ricevono quasi mai una bottiglia di qualcosa che non è stato acquistato in un negozio.
Negli Stati Uniti, le nuove generazioni di amanti del cibo (Foodies) possono sforzarsi di essere dei consumatori ben informati, ma in realtà la filiera dei prodotti che le persone usano quotidianamente, nelle loro cucine, rimane un mistero, una volta oltrepassato lo scaffale del negozio in cui sono stati acquistati. Nonostante la popolarità della dieta mediterranea che esalta le virtù dell’olio extravergine di oliva e delle esortazioni di Slow Food e della California Cousine a mangiare cibo di stagione prodotto localmente, la maggior parte delle persone non ha idea dell’immenso lavoro che è necessario per mettere in tavola una bottiglia di vino o di olio. E neanche io ne avevo, prima di andare ad aiutare con la raccolta nell’oliveto di un amico, nelle stesse dolci colline toscane viste in TV.
Forestarìa è un piccolo agriturismo situato alle porte della città di Lucca, adagiato in un angolo di una collina ondulata, scolpito da filari di viti ed ulivi. La mia amica Eleonora e il suo compagno Marco hanno comprato la fattoria che era della zia di Eleonora, ed insieme al padre di Eleonora producono e vendono una piccola quantità di olio extravergine d’oliva. Ogni anno accettano numerosi eco-turisti che danno una mano nella raccolta delle olive; di solito si tratta di giovani internazionali che scelgono l’opzione del lavoro agricolo volontario come un modo per viaggiare in modo economico ed entrare in contatto con il territorio, e che come me riescono a realizzare il loro sogno di “esperienza toscana” in cambio di vitto e alloggio. Arruolando alcuni altri membri della famiglia e degli amici per completare la squadra, il gruppo di raccoglitori si riunisce ogni anno per la raccolta. Fin da quando mi ricordo, ho sempre avuto una grande passione per il cosiddetto “oro liquido”, quindi sono partita con un’idea romantica in testa, di giorni languidi da passare in un lussureggiante paesaggio toscano, raccogliendo delicatamente le olive dai loro rami; insomma l’incarnazione de “La dolce vita”.
La mattina dopo il mio arrivo ci siamo svegliati presto per buttare giù un caffè al volo prima di dirigerci verso l’oliveto. Le reti per la raccolta delle olive erano state già posate il giorno prima; quasi delle stradine di reticolo verde posizionate strategicamente tra le fila ordinate di ulivi lungo un ripido pendio. Avvolta nell’aria del primo mattino, con la nebbia violacea che emanava dal fianco della collina, la vita rustica di un contadino italiano mi è sembrata incantevole.
Ma è durato poco. Per la precisione, fino a quando un piccolo trattore con un compressore blu a forma di bulbo non è stato acceso, sparando aria ad alta pressione attraverso lunghi tubi flessibili collegati a rastrelli meccanici che venivano sollevati sugli alberi. Con una leggera pressione sull’impugnatura del grilletto, una raffica assordante di pseudo-colpi di arma da fuoco ha iniziato a piovere senza pietà dalle teste di rastrello a dita intrecciate. Gli uccelli hanno spiccato il volo, la nebbia irritata ha deciso di spostarsi altrove, e la leggera luce mattutina ha iniziato a trafiggerci gli occhi rivolti all’insù, mentre cominciavamo a “pettinare” le olive per staccarle dai rami. Una ventina di minuti dopo stavo sudando, ero indolenzita e senza fiato. Mi sembrava di avere arti pesanti come il cemento, e non escludevo la possibilità di sentirmi male a tal punto da vomitare. Sono abbastanza sicura che la mia faccia fosse diventata di una qualche sfumatura verde, o forse viola. Mi è passata per la testa l’idea di escogitare una rapida fuga a piedi, ma riuscivo a malapena a respirare, figuriamoci a far funzionare le mie inutili gambe. Ero infelice e patetica, e come se non bastasse, un uomo di sessant’anni su un albero se la rideva. Non era così che avevo immaginato la raccolta delle olive.
L’uomo sull’albero era il padre di Eleonora, chiamato da tutti affettuosamente Gambina. Si trovava felicemente appollaiato sui rami alti di una pianta, brandendo un pesante rastrello in una mano callosa, mentre con l’altra si arrotolava una sigaretta e allo stesso tempo cantava canzoni popolari italiane. Ha il doppio della mia età e tre volte la mia forza. Gambina è cresciuto facendo questo lavoro, e lo porta avanti senza pensare due volte allo sforzo e impegno necessari per mantenere il piccolo ma impegnativo oliveto. Non c’è dubbio che la vista della sottoscritta, un’americana sulla trentina, aggrappata a un robusto tronco d’olivo come se si trattasse di una zattera di salvataggio in mezzo al mare, lo facesse ridere. Se a qualcuno per sbaglio sfuggiva anche solo un’oliva, il suo occhio di falco ci reindirizzava subito, fino a quando non venivano tutte raccolte.
Gambina ha buone ragioni per essere scrupoloso. Ogni oliva contiene poche gocce di quello che sarà il guadagno di quella stagione e con solo pochi ettari di terreno, ogni goccia è importante. Senza curarsi del tempo impiegato, si è assicurato che facessimo un lavoro accurato. Dopo tre ore di quel che vivevo come una punizione, Gambina aveva completato la raccolta di due file di alberi, da solo. Eleonora, suo fratello e un amicosi erano occupati di altre due file, e il gruppo composto dagli otto ospiti che riempivano le stanze della Forestarìa ne aveva incredibilmente finito uno (nonostante la metà di noi passasse la maggior parte del tempo a fingere di raccogliere olive da terra, solo per evitare di sollevare di nuovo quel maledetto rastrello). Dopo esser riuscita a completare la raccolta di un olivo da sola, e sentendomi a quel punto come se la mia vita mi fosse balenata davanti agli occhi, ho deciso che sarebbe stato più utile per tutti se mi fossi occupata di arrotolare l’infinita scorta di sigarette di Gambina, così almeno avrebbe dato un taglio alle imprecazioni in dialetto per la mia lentezza. Alla fine ci siamo presi un’ora di pausa per il pranzo, solo per tornare a cimentarci di nuovo, da capo, in questo compito erculeo.
Quella sera, rientrati a casa, sono crollata sul mio letto e mi sono addormentata quasi subito, saltando la cena. Mi ci è voluta quasi tutta la settimana prima di riuscire a passare un giorno intero nel campo senza nessuna sensazione di nausea, apprensione, ne dubbi esistenziali sul perché mi ero cacciata in quella situazione. Nonostante il duro lavoro manuale, alla fine sono riuscita a godermi i bellissimi dintorni e sono orgogliosa di aver partecipato a questa tradizione secolare. Soprattutto, ho sviluppato un profondo rispetto per il lavoro agricolo e per gli alimenti di tutti i giorni, che consumiamo senza pensare o senza considerare gli enormi sforzi necessari per realizzarli. La dedizione, l’artigianato e le immense difficoltà della produzione di questo olio hanno cambiato per sempre il modo in cui vedo il cibo. Non è più solo un delizioso alimento base per la cucina e la salute. È anche un pilastro fondamentale di uno stile di vita, di un modo di guadagnarsi da vivere e di un lavoro incredibilmente difficile che permette ad un prodotto prezioso di arrivare in tavola.
(Traduzione di Tina Magazzini, European University Institute)
Versione originale in inglese:
Giuliana Mackler ha lavorato come professionista nella ristorazione a New York e nel 2019 ha frequentato il Master in Scienze Gastronomiche presso UNISG. Ora vive a Lucca.